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DON DIEGO SANDOVAL DE CASTRO

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AMOR, LUNGA STAGION EBBI ARDIMENTO
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Amor, lunga stagion ebbi ardimento
ogni vista sprezzar ch’agli occhi piace,
che ne sostiene in debile e fallace
sperar, ch’ogni piacer volge in tormento,
e spiegar le mie vele a miglior vento,
per giunger a quel ben, che mai non spiace;
ma tu, che ‘nvidia avesti di mia pace,
l’aura e l’ardir spengesti in un momento.
Nova beltà, dolcissime parole
mi piacquer tanto, che lo strale e ‘l laccio
mi ferì insieme et annodommi ‘l core.
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Così caddi a la rete e così ‘l sole
de’ begli occhi disfece il duro ghiaccio,
che chiudea ‘l varco a ogni terre ardore.
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OCCHI LEGGIADRI CHE SOAVEMENTE
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Occhi leggiadri, che soavemente,
sol col mirar, mi depredaste il core
nel giorno ch’io non oprai ‘ncontr’Amore
l’arme da lui che mi campar sovente,
e voi man preste a innamorar la gente,
la cui beltà fa ‘l foco mio maggiore,
se vostra vista acqueta ogni altro ardore,
ond’è che sète si a celarv’intente?
Ne le fortune mie voi sète il porto
e de la mente travagliata e stanca
voi la difesa e voi ‘l conforto solo.
Ma se l’alto soccorso indi mi manca,
con tutto quel che con industria involo,
io morrò pria che ‘l mio fil giunga attorto.
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Don Diego Sandoval de Castro (1505 – 1546) è stato un poeta spagnolo, castellano di Cosenza e barone di Bollita.
Militò nell’esercito dell’imperatore Carlo V, prima di essere investito della baronia del feudo di Bollita, oggi Nova Siri in provincia di Matera, e di ottenere la castellania di Cosenza.
Sposato per procura con la nobildonna napoletana Antonia Caracciolo ebbe tuttavia una relazione epistolare e, forse, amorosa con Isabella Morra, la poetessa lucana. Nel 1546 i fratelli di Isabella Morra lo scoprirono e uccisero donna Isabella e il suo sfortunato precettore, nel Castello di Valsinni.
Don Diego fu ucciso pochi mesi dopo a colpi di fucile durante una battuta di caccia nei boschi di Noepoli in provincia di Potenza.
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ISABELLA MORRA

Isabella Morra bis

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I FIERI ASSALTI DI CRUDEL FORTUNA
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I fieri assalti di crudel Fortuna
scrivo, piangendo la mia verde etate,
me che 'n si vili ed orride contrate
spendo il mio tempo senza loda alcuna.
Degno il sepolcro, se fu vil la cuna,
vo procacciando con le Muse amate,
e spero ritrovar qualche pietate
malgrado de la cieca aspra importuna;
e, col favor de le sacrate Dive,
se non col corpo, almen con l'alma sciolta,
esser in pregio a più felici rive.
Questa spoglia, dove or mi trovo involta,
forse tale alto re nel mondo vive,
che 'n saldi marmi la terrà sepolta.
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TORBIDO SIRI, DEL MIO MAL SUPERBO
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Torbido Siri, del mio mal superbo,
or ch'io sento da presso il fine amaro,
fa' tu noto il mio duolo al padre caro,
se mai qui 'l torna il suo destino acerbo.
Dilli com'io, morendo, disacerbo
l'aspra fortuna e lo mio fato avaro,
e, con esempio miserando e raro,
nome infelice e le tue onde io serbo.
Tosto ch'ei giunga a la sassosa riva
(a che pensar m'adduci, o fiera stella,
come d'ogni mio ben son cassa e priva!),
inqueta l'onda con crudel procella,
e dì: - M'accrebber sì, mentre fu viva,
non gli occhi no, ma i fiumi d'Isabella.
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Isabella Morra nacque da famiglia patrizia nel 1520 a Favale, l’odierna Valsinni, un piccolo borgo arroccato nel Pollino, tra Lucania e Calabria, dov’era il feudo familiare, la terza degli otto figli di Giovanni Michele Morra.
Breve e infelicissima  fu la sua vita, a soli ventisei anni fu uccisa col suo precettore, pugnalata dai fratelli  nel castello di Morra, per via di una presunta relazione clandestina con il barone spagnolo Diego Sandoval de Castro.
Della sua produzione poetica , rivalutata nel ‘900 da Benedetto Croce che,  restano  un esile canzoniere, le “Rime”, tredici componimenti, dieci sonetti e cinque canzoni, che rappresentano l’impetuosa autobiografia e ne rivelano l’indole malinconica e appassionata, ma sono anche testimonianza della sua dotta e raffinata cultura.
Il petrarchismo,  per Isabella,  resta solo un vago punto di riferimento, e rivela sensibilità e suggestioni tassiane ed anche leopardiane (il natio borgo selvaggio e l’invettiva alla crudel fortuna), con la trasfigurazione lirica del paesaggio, che diventa partecipe dei suoi stati d’animo, e con la tragicità delle immagini con cui esprime il suo tormento.
Nelle “Rime”,  che vertono sulla sua vicenda esistenziale, sull’ansia di libertà, sulla volubilità della fortuna, sull’avversa sorte, sulla vana ed ansiosa attesa del ritorno del padre lontano, Isabella lamenta la drammatica condizione di reclusa e protesta contro il destino sfavorevole ma, nei componimenti di ispirazione religiosa, sembra accettare, in accorata esaltazione mistica, l’infelice destino terreno.

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GIOCONDA BELLI

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NO ME ARREPIENTO DE NADA

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Desde la mujer que soy,
a veces me da por contemplar
aquellas que pude haber sido;
las mujeres primorosas,
hacendosas, buenas esposas,
dechado de virtudes,
que deseara mi madre.
No sé por qué
la vida entera he pasado
rebelándome contra ellas.
Odio sus amenazas en mi cuerpo.
La culpa que sus vidas impecables,
por extraño maleficio,
me inspiran.
Reniego de sus buenos oficios;
de los llantos a escondidas del esposo,
del pudor de su desnudez
bajo la planchada y almidonada ropa interior.
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Estas mujeres, sin embargo,
me miran desde el interior de los espejos,
levantan su dedo acusador
y, a veces, cedo a sus miradas de reproche
y quiero ganarme la aceptación universal,
ser la “niña buena”, la “mujer decente”
la Gioconda irreprochable.
Sacarme diez en conducta
con el partido, el estado, las amistades,
mi familia, mis hijos y todos los demás seres
que abundantes pueblan este mundo nuestro.
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En esta contradicción inevitable
entre lo que debió haber sido y lo que es,
he librado numerosas batallas mortales,
batallas a mordiscos de ellas contra mí
-ellas habitando en mí queriendo ser yo misma-
transgrediendo maternos mandamientos,
desgarro adolorida y a trompicones
a las mujeres internas
que, desde la infancia, me retuercen los ojos
porque no quepo en el molde perfecto de sus sueños,
porque me atrevo a ser esta loca, falible, tierna y vulnerable,
que se enamora como alma en pena
de causas justas, hombres hermosos,
y palabras juguetonas.
Porque, de adulta, me atreví a vivir la niñez vedada,
e hice el amor sobre escritorios
-en horas de oficina-
y rompí lazos inviolables
y me atreví a gozar
el cuerpo sano y sinuoso
con que los genes de todos mis ancestros
me dotaron.
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No culpo a nadie. Más bien les agradezco los dones.
No me arrepiento de nada, como dijo la Edith Piaf.
Pero en los pozos oscuros en que me hundo,
cuando, en las mañanas, no más abrir los ojos,
siento las lágrimas pujando;
veo a esas otras mujeres esperando en el vestíbulo,
blandiendo condenas contra mi felicidad.
Impertérritas niñas buenas me circundan
y danzan sus canciones infantiles contra mí
contra esta mujer
hecha y derecha,
plena.
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Esta mujer de pechos en pecho
y caderas anchas
que, por mi madre y contra ella,
me gusta ser.*

Non mi pento di niente

Dalla donna che sono,
mi succede, a volte, di osservare
nelle altre, la donna che potevo essere;
donne garbate,
laboriose, buone mogli,
esempio di virtù,
come mia madre avrebbe voluto.
Non so perché
ho trascorso tutta la vita
a ribellarmi a loro.
Odio le loro minacce sul mio corpo
la colpa che le loro vite impeccabili,
per strano maleficio
mi ispirano;
mi ribello contro le loro buone azioni,
contro i pianti di nascosto dal marito,
del pudore della loro nudità
sotto la stirata e inamidata biancheria intima.
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Queste donne, tuttavia,
mi guardano dal fondo dei loro specchi;
alzano un dito accusatore
e, a volte, cedo al loro sguardo di biasimo
e vorrei guadagnarmi il consenso universale,
essere “la brava bambina”, essere la “donna per bene”
la Gioconda irreprensibile,
prendere dieci in condotta
dal partito, dallo Stato, dagli amici,
dalla mia famiglia, i miei figli e da tutti gli esseri
che popolano abbondantemente questo mondo.
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In questa contraddizione inevitabile
tra quel che doveva essere e quel che è,
ho combattuto numerose battaglie mortali,
battaglie a morsi, loro contro di me
– loro dentro di me che sono me stessa –
trasgredendo i comandamenti materni
inciampo dolorante,
e lacero le donne che vivono in me
che, fin dall’infanzia, mi guardano torvo
perché non sono lo stampo perfetto dei loro sogni,
perché oso essere quella folle, inattendibile, tenera e vulnerabile
che si innamora come anima in pena
di cause giuste, di uomini belli
e di parole giocose
Perché, da adulta, ho osato vivere l’infanzia proibita
e ho fatto l’amore sulle scrivanie
-nelle ore d’ufficio-
ho rotto vincoli inviolabili
e ho osato godere
del corpo sano e sinuoso
di cui i geni di tutti i miei avi
mi hanno dotata.
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Non incolpo nessuno. Anzi li ringrazio dei doni.
Non mi pento di niente, come disse Edith Piaf:
ma nei pozzi scuri in cui sprofondo al mattino,
appena apro gli occhi,
sento le lacrime che premono,
vedo queste altre donne che aspettano nell’ingresso
blandendo condanne contro la mia felicità.
Imperterrite bambine buone mi circondano
e danzano canzoni infantili contro di me
contro questa donna
fatta e dritta,
piena.
 .
Questa donna dal seno sodo
e i fianchi larghi,
che, per mia madre e contro di lei,
mi piace essere.
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Francisca Aguirre

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Non confondetevi

E quando ormai non resterà più nulla
avrò sempre il ricordo
di ciò che non si compì mai.
Quando mi guarderanno con aspra pietà
avrò sempre
ciò che la vita non poté offrirmi.
Credetemi:
tutto ciò che pensate sia stato disastro e perdita
non è stato altro che ipotesi.
E quando ormai non resterà più nulla
avrò sempre quel che mi fu negato.
Non confondetevi: con quel che mai ho avuto
posso riempire il mondo palmo a palmo.
Tanta paura avevate da non accorgervi
della ricchezza che si nasconde nella perdita.
Sventurati,
ben poca cosa è il vostro profitto
se non avete mai perso nulla.
Io sì che ho perduto:
io, come il naufrago,
ho tutta la terra che mi aspetta.

No os confundáis

Y cuando ya no quede nada
yo siempre tendré
el recuerdo de lo que no se cumplió
Cuando me miren con áspera piedad
yo siempre tendré
lo que la vida no pudo ofrecerme.
Creedme:
todo lo que pensáis que fue
destrozo y pérdida
no ha sido más que conjetura.
Y cuando ya no quede nada
siempre tendré lo que me fue negado.
No os confundáis:
con lo que nunca tuve
puedo llenar el mundo palmo a palmo.
Tanto miedo tenéis
que no habéis advertido
la riqueza que se oculta en la pérdida.
Desdichados,
poca ganancia es la vuestra
si nunca habéis perdido nada.
Yo sí he perdido:
yo tengo, como el náufrago,
toda la tierra esperándome.

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Francisca Aguirre è nata ad Alicante, in Spagna nel 1930. La sua famiglia fu costretta a fuggire in Francia, alla fine della guerra civile, perché si schierò con la Repubblica. Nel 1942, a seguito dell’invasione tedesca, la sua famiglia tornò in Spagna, dove il padre, il pittore Lorenzo Aguirre, è stato assassinato dal regime di Franco.
È una poetessa di solida traiettoria e profonda emozione che, da una parte, presenta atti di un mondo riconoscibile e compatto e, dall’altro, sviluppa un processo di approfondimento in una visione esistenzialista della vita.
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Jorge Enrique Adoum

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Podría ser también

Recordar, cuando uno es o está solo, duele más
que imaginar: eso es lo que queremos demostrar.
El micrófono aumenta la verdadera voz, la ausencia:
se trata del viaje a una mujer como a una ciudad
a la que no se llega por invisible, por distante.
Y si uno llegara y estuviera allí, en ella,
va a tratarse, con esa música, de una separación
que será para siempre, como siempre.
¿A quién culpar? ¿Son destino el país
que no tuviste, la mujer en la que no entraste?
Una compañia – cualquiera –, más o menos conyugal,
o recién hallada, digo más o menos duradera,
nunca la querida no buscada, nunca la presentida,
destruiría esa sensación agridulce o dulceamarga
de lo que no es, lo que no fue, sin que importen
la voz o el rostro que le pertenecen,
tampoco la edad que sus piernas sostienen:
lo que no puede ser porque si fuera no sería.

En el fondo, dolería que no doliera.
Incluso que no doliera más de lo que duele.

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Potrebbe essere anche

Ricordare, quando uno è o sta solo, fa più male
che immaginare: questo è quello che vogliamo dimostrare.
Il microfono amplifica la vera voce, l’assenza:
si tratta del viaggio a una donna come a una città
alla quale non si giunge da invisibile, da lontano.
E se uno giungesse e stesse lì, in lei,
si tratterebbe, con questa musica, di una separazione
che sarà per sempre, come sempre.
A chi dare la colpa? Sono destino il paese
che non avesti, la donna in cui non entrasti?
Una compagnia – qualsiasi–, più o meno coniugale,
o da poco incontrata, dico più o meno duratura,
mai l’amata non cercata, mai la presentita,
distruggerebbe questa sensazione agrodolce o dolceamara
di ciò che non è, ciò che non fu, senza che importi
la voce o il volto che le appartengono,
né l’età che le sue gambe sostengono:
ciò che non può essere perché se fosse non sarebbe.

E in fondo, farebbe male che non facesse male.
Persino che non facesse male più di quanto fa male.

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Jorge Enrique Adoum (Ambato, Ecuador, 1926 – 2009) Nel 1944 entra a far parte di «Madrugada», movimento che segna una svolta nella storia della poesia ecuadoriana, accogliendo le innovazioni delle prime e delle seconde avanguardie e proclamandosi politicamente di sinistra. Tra il 1945 e il 1947, durante il suo soggiorno in Cile, lavora come segretario personale di Pablo Neruda che influenzerà le sue poesie ma già in “Curriculum mortis” (1968) e in “Prepoemas en postespañol” (1979) si definisce il suo particolare linguaggio e i suoi modi specifici di manipolazione e ricostruzione dei vocaboli. I suoi non sono mai semplici giochi di parole (spesso difficilmente traducibili), ma una forma di ribellione e di contestazione di ciò che chiama «subdemocracias cuarteleras» (sottodemocrazie da caserma).

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Patrizia Cavalli

Un'altra galassia

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Adesso che il tempo sembra tutto mio

Adesso che il tempo sembra tutto mio
e nessuno mi chiama per il pranzo e per la cena,
adesso che posso rimanere a guardare
come si scioglie una nuvola e come si scolora,
come cammina un gatto per il tetto
nel lusso immenso di una esplorazione, adesso
che ogni giorno mi aspetta
la sconfinata lunghezza di una notte
dove non c’è richiamo e non c’è più ragione
di spogliarsi in fretta per riposare dentro
l’accecante dolcezza di un corpo che mi aspetta,
adesso che il mattino non ha mai principio
e silenzioso mi lascia ai miei progetti
a tutte le cadenze della voce, adesso
vorrei improvvisamente la prigione.

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Patrizia Cavalli,  Todi 1947, poetessa e scrittrice.
La poesia della Cavalli è caratterizzata da una complessa tecnica poetica. Le misure metriche che utilizza sono classiche, ma il lessico e la sintassi sono quelle della lingua contemporanea; sono assenti poeticismi e manierismi, e il linguaggio è naturale e familiare.
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Eugenio Montejo

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La tierra giró para acercarnos

La tierra giró para acercarnos,
giró sobre sí misma y en nosotros,
hasta juntarnos por fin en este sueño,
como fue escrito en el Simposio.
Pasaron noches, nieves y solsticios;
pasó el tiempo en minutos y milenios.
Una carreta que iba para Nínive
llegó a Nebraska.
Un gallo cantó lejos del mundo,
en la previda a menos mil de nuestros padres.
La tierra giró musicalmente
llevándonos a bordo;
no cesó de girar un solo instante,
como si tanto amor, tanto milagro
sólo fuera un adagio hace mucho ya escrito
entre las partituras del Simposio.
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La terra girò per avvicinarci

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La terra girò per avvicinarci
girò su se stessa e dentro di noi
fino ad unirci finalmente in questo sogno,
come fu scritto nel Simposio.
Passarono notti, nevi, solstizi;
passò il tempo in minuti e millenni.
Un carro che andava a Ninive
arrivò a Nebraska.
Un gallo cantò lontano dal mondo.
La terra girò musicalmente
con noi a bordo;
non cessò di girare un solo istante,
come se tanto amore, tanto miracolo
fosse solo un adagio già scritto molto tempo fa
tra le partiture del Simposio.
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Terredad

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Estar aquí por años en la tierra,
con las nubes que lleguen, con los pájaros,
suspensos de hora frágiles.
A bordo, casi a la deriva,
más cerca de Saturno, más lejanos,
mientras el sol da vuelta y nos arrastra
y la sangre recorre su profundo universo
más sagrado que todo los astros.
Estar aquí en la tierra: no más lejos
que un árbol, no más inexplicables;
livianos en otoño, henchidos en verano,
con lo que somos o no somos, con la sombra,
la memoria, el deseo, hasta el fin
(si hay un fin) voz a voz,
casa por casa,
sea quien lleve la tierra, si la llevan,
o quien la espere, si la aguardan,
partiendo juntos cada vez el pan
en dos, en tres, en cuatro,
sin olvidar la parte de la hormiga
que seimpre viaja de remotas estrellas
para estar a la hora en nuestra cena
aunque las migas sean amargas.
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Territudine

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Stare qui per anni sulla terra,
con le nubi che arrivano, con gli uccelli,
sospesi a fragili ore.
A bordo, quasi alla deriva,
più vicini a Saturno, più lontani,
mentre il sole fa un giro e ci trascina
e il sangue percorre il suo profondo universo
più sacro di tutti gli astri.
 
Stare qui sulla terra: non più lontani
di un albero, né più incomprensibili,
leggeri d’autunno, gonfi d’estate,
con ciò che siamo o non siamo, con l’ombra,
la memoria, il desiderio, fino alla fine
(se c’è una fine) voce a voce,
casa per casa,
sia chi porta la terra, se la portano,
o chi l’attende, se l’attendono,
dividendo insieme ogni volta il pane
in due, in tre, in quattro,
senza dimenticare gli avanzi per la formica
che sempre viaggia da remote stelle
per essere puntuale all’ora della nostra cena
sebbene le briciole siano amare.

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Eugenio Montejo, Caracas 1938, Valencia 2008, è stato un poeta e saggista venezuelano.
Nella sua poesia privilegia il mondo naturale: pietre alberi animali divengono il segno della bellezza e della pienezza dell’essere. “Il mare, la foresta, la presenza di fiumi, tutto ciò fortifica lo spirito della contemplazione e dell’arte”.
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Jacques Prévert

Le temps perdu

Devant la porte de l’usine
le travailleur soudain s’arrète
le beau temps l’a tiré par la veste
et comme il se retourne
et regarde le soleil
tout rouge tout rond
souriant dans son ciel de plomb
il cligne de l’oeil
familièrement
Dis-donc camarade Soleil
ne trouves-tu pas
que c’est plutôt con
de donner une journée pareille
à un patron ?

Il tempo perso

Sulla porta dell’officina
d’improvviso si ferma l’operaio
la bella giornata l’ha tirato per la giacca
e non appena volta lo sguardo
per osservare il sole
tutto rosso tutto tondo
sorridente nel suo cielo di piombo
fa l’occhiolino
familiarmente
Dimmi dunque compagno Sole
davvero non ti sembra
che sia un pò da coglione
regalare una giornata come questa
ad un padrone?

Jacques Prévert Neuilly-sur-Seine 1900, Omonville-la-Petite 1977, è stato un poeta e sceneggiatore francese.
Una poesia di Prévert nascesotto l’influenza del surrealismo e via via si modifica nel tempo.
È una poesia scritta per essere detta e quindi più parlata che scritta, fatta per entrare a far parte della nostra vita. Ciò che esce con prepotenza è il concetto di amore come unica salvezza del mondo, un amore implorato, sofferto, tradito, ma alla fine sempre ricercato
La poesia prevertiana è di una facilità pericolosa perché ricca di ritmi interni, di giochi di parole, di diverse situazioni psicologiche che sono lo specchio di questo grande poeta francese.

 

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Pier Paolo Pasolini

Alla mia nazione

Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico
ma nazione vivente, ma nazione europea:
e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!
Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.
E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
che il tuo male è tutto male: colpa di ogni male.
Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.

Gli Italiani

L’intelligenza non avrà mai peso, mai
nel giudizio di questa pubblica opinione.
Neppure sul sangue dei lager, tu otterrai

da uno dei milioni d’anime della nostra nazione,
un giudizio netto, interamente indignato:
irreale è ogni idea, irreale ogni passione,

di questo popolo ormai dissociato
da secoli, la cui soave saggezza
gli serve a vivere, non l’ha mai liberato.

Mostrare la mia faccia, la mia magrezza –
alzare la mia sola puerile voce –
non ha più senso: la viltà avvezza

a vedere morire nel modo più atroce
gli altri, nella più strana indifferenza.
Io muoio, ed anche questo mi nuoce.

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Rocco Scotellaro

Rocco Scotellaro Tricarico 1923, morì a Portici a soli trent’anni.

Tutte le opere di Scotellaro sono strettamente collegate alla società contadina lucana a cui orgogliosamente appartiene.

La sua scrittura è semplice, elementare, sapientemente costruita sulla parlata della gente, narra di terra e di gente di un sud isolato e dimenticato. L’asciuttezza lirica scolpisce i sentimenti e si carica di dolore come la stessa ostinata fatica del bracciante, quel suo ammucchiare da una parte le pietre per liberare la terra.

Gran parte degli scritti e delle composizioni di Scotellaro furono pubblicate postume, anche grazie all’impegno e all’interessamento di Rossi-Doria, e Carlo Levi suo mentore e amico.

È fatto giorno

E’ fatto giorno, siamo entrati in giuoco anche noi
con i panni e le scarpe e le facce che avevamo.
Le lepri si sono ritirate e i galli cantano,
ritorna la faccia di mia madre al focolore

La mia bella patria

Io sono un filo d’erba
un filo d’erba che trema
E la mia patria è dove l’erba trema.
Un alito può trapiantare
il mio seme lontano.

Cena

Voglio aria la sera e consumazione
di vino e castagne in compagnia
perché ognuno conta una storia
e insieme viene l’armonia.
Lo scarparo è stato tutto il santo giorno in casa
fino a che si è fatto scuro e si è cavato il senale,
con quello ha coperto il bancarello e i ferri
e ha detto a moglie e figli: Io esco andatevi a coricare.
Il fabbricatore viene direttamente dalla casa che fabbrica
con le lenticchie di calce azzeccate sotto l’occhio.
Il sarto anche lui con un filo e l’impiegato
con l’inchiostro sciolto alla punta di due dita.
I contadini sono più di uno
con succhi di stalla sul collo.
Ed io ho sbattuto il libro già ingoiato dall’ombra,
e ho detto ad alta voce che questo non è vita.
Ci siamo allora azzuffati alla morra,
la moglie e la figlia del falegname,
dove stiamo bevendo, girano attorno alla tavola
e dicono che siamo proprio bambini.
Abbiamo cacciato i tozzi di pane di tasca
e chi olive, chi una noce, chi la cipolla e il peperone;
l’impiegato ha diviso la frittata incartata
in un foglio di ufficio, e abbiamo bevuto.
Amore, amore veniva da cantarlo
tutta la santa notte in compagnia.
La moglie e la figlia del falegname
si sono ritirate dicendo:
Questi fanno far giorno
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Carmelo Urso

En Tiempo Presente

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